XXXV.

La letteratura di secondo Ottocento: scapigliatura, verismo, Verga

1. La scapigliatura

La scapigliatura lombarda – che deriva la propria denominazione da un mediocre romanzo del milanese Cletto Arrighi (anagramma di Carlo Righetti, 1830-1906), edito a Milano nel 1862, La Scapigliatura e il sei febbraio (Un dramma in famiglia)costituisce un singolare momento della storia letteraria ottocentesca, la data di inizio del quale si può fissare intorno al 1860 e la cui conclusione si confonde con gli inizi del decadentismo e del verismo. Il termine nel romanzo dell’Arrighi, che è ambientato al tempo della rivolta contro il dominio austriaco scoppiata a Milano nel 1853, voleva indicare (e si trattava della parafrasi di un passo di Balzac) una «casta o classe... vero pandemonio del secolo; personificazione della follia che sta fuori dei manicomi; serbatoio del disordine, della imprevidenza, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti». Questa si presentava con un duplice aspetto: «Da un lato: un profilo piú italiano che milanese, pieno di brio, di speranza e di amore; e rappresenta il lato simpatico e forte di questa classe, inconscia della propria potenza, propagatrice delle brillanti utopie, focolare di tutte le idee generose, anima di tutti gli elementi geniali, artistici, poetici, rivoluzionari del proprio paese... Dall’altro lato, invece, un volto smunto solcato, cadaverico; su cui stanno le impronte delle notti passate nello stravizzo e nel giuoco; su cui si adombra il segreto di un dolore infinito...». Questo cliché (ricalcato su quello della Bohéme parigina descritta da Henri Murger) sarà applicato per indicare un eterogeneo gruppo di artisti e intellettuali attivi a Milano (e, in misura minore, a Torino), alcuni dei quali parvero accomunati da un drammatico destino esistenziale e tutti in diversa misura impegnati in una serrata polemica nei confronti delle strutture e dei valori culturali e morali della società nazionale in via di formazione. La rivolta all’ordine costituito in politica come in letteratura è perciò il comune denominatore di esperienze culturali e poetiche compiute a diversi livelli e con diversi risultati, ma sempre in una prospettiva europea, cosicché all’esempio del Manzoni sopravvissuto alla propria epoca gli «scapigliati» – raccolti intorno ai loro combattivi ma effimeri periodici («La Cronaca grigia», «Il Figaro», «Lo Scapigliato», «La Rivista minima») – contrapposero modelli piú congeniali, in un momento di crisi e di turbamento della società e della coscienza individuale tanto piú avvertibile in una grande città come Milano e nell’atmosfera ormai stagnante del tardo romanticismo rappresentato dal Prati e dall’Aleardi. Entrarono cosí nel circolo della cultura italiana e in una dimensione dichiaratamente antiborghese e antiaccademica e antiumanistica Victor Hugo, Charles Baudelaire, Edgar Allan Poe, Heinrich Heine, Jean Paul Richter, Laurence Sterne, Charles Dickens, William Makepeace Thackeray, la musica di Wagner, Gounod, Meyerbeer, le esperienze dell’impressionismo francese, ma tante e tanto disparate novità furono bruciate nel volgere di pochi anni piuttosto con una ripresa di atteggiamenti ed elementi esteriori che non con una concreta capacità di assimilazione e approfondimento, come dimostrano ad esempio le confuse speculazioni estetiche sull’«affinità» delle arti (poesia, musica, pittura) di Giuseppe Rovani (Milano, 1818-1874), poligrafo di estrazione manzoniana e animatore delle brigate scapigliate, il nome del quale è legato ai Cento anni (1856-1864), fortunato e farraginoso romanzo ciclico sulla vita milanese fra il 1750 e il 1850. Vale per tutti gli «scapigliati» la considerazione che ad una lucidissima e sofferta coscienza dell’insanabile crisi della società nazionale verificatasi in Italia alla fine del Risorgimento non corrispose, sul piano artistico e letterario, una capacità di scelta fra vecchio e nuovo, per cui tutte le loro opere in prosa o in versi, in musica e in pittura sono animate dal contrasto vivissimo fra il tributo pagato al primo romanticismo europeo e la tensione a nuove poetiche orientate verso il naturalismo come rappresentazione anticonformista della realtà sociale o verso il sogno inafferrabile dell’art pour l’art, della poesia come rivelazione assoluta che illumina la profondità dell’essere individuale. Ma è al di fuori della vita dei cenacoli artistici, che si formarono numerosi in questo periodo a Milano, ormai il piú vivace centro della nascente industria culturale italiana, che si dovranno individuare le piú complesse esperienze poetiche di Emilio Praga (Gorla, 1839-Milano, 1875), di Arrigo Boito (Padova, 1842-Milano, 1918), di Igino Ugo Tarchetti (San Salvatore Monferrato, 1839-Milano, 1869), di Carlo Dossi, pseudonimo di Carlo Alberto Pisani Dossi (Zenevredo, 1849-Cardina, 1910), di Giovanni Camerana (Casale Monferrato, 1845-Torino, 1905), nei quali la fortissima esigenza di rinnovamento degli spiriti e delle forme della letteratura nazionale si esaspera inizialmente in atteggiamenti iconoclastici per comporsi successivamente in un rinnovato senso della vita e della poesia che costituisce ormai il lontano preludio della poetica del decadentismo. Non solo ad esigenze di rinnovamento letterario, ma all’impegno polemico contro la società del proprio tempo si deve quindi la programmatica scelta di soggetti eccentrici, patologici, per esprimere il proprio dissenso dall’ottimismo e dall’attivismo e dallo scientismo positivista, l’abbandono e il rifiuto della tematica parenetica del Risorgimento, il rifugio quindi nella protesta antiborghese e anarchica o nella concezione dell’art pour l’art, esigenza fondamentale della poetica decadentistica, dopo la iniziale, inevitabile caduta di propositi di rinnovamento certamente generici, ma non per questo perseguiti con minor dedizione e rigore. Cosí Emilio Praga, dopo il precoce esordio di poeta realistico ancorato alla tradizione illuministica lombarda con Tavolozza (1862), si accosterà progressivamente ai toni piú cupi e satanici dei maudits francesi con Penombre (1864) e chiuderà la sua breve esistenza minato dall’alcolismo; Arrigo Boito, poeta e musicista, dopo le roventi polemiche condotte sul «Figaro», insieme all’amico Praga, contro Manzoni e Verdi per il rinnovamento dell’arte italiana, si ritirerà in disparte inseguendo per tutta la vita il sogno di un’opera che potesse essere la «restaurazione della tragedia greca o del mistero medioevico», lavorando come librettista per Verdi (Otello, Falstaff) e lasciando incompiuta la sua piú ambiziosa opera in musica Nerone; Igino Ugo Tarchetti, dopo aver descritto le miserie della vita cittadina nel romanzo “sociale” Paolina (1865) e dopo aver lanciato una clamorosa sfida al conformismo borghese con un romanzo di violentissima intonazione antimilitaristica e pacifista, Una nobile follia (1867), inizierà nei successivi racconti (L’innamorato della montagna, Storia di una gamba, Amore nell’arte, Fosca) una febbrile e paurosa analisi dei misteri della realtà psichica e metapsichica, approdando ad un torbido e malato spiritualismo; Carlo Dossi si isolerà, dopo le prime precocissime e originali prove in cui già dimostra una straordinaria sensibilità al fatto linguistico (L’Altrieri e Vita di Alberto Pisani), in una aristocratica solitudine di studi e scritture privatissime nell’ambito di un individualismo che rifiuta ogni contatto con l’esterno, come documentano le Note azzurre edite per intero a molti anni di distanza dalla morte del loro autore; Giovanni Camerana, integerrimo magistrato a Torino, dopo una vita trascorsa a tentare nuove vie per la sua intensa ed elaboratissima esperienza poetica, morirà suicida. E si dovrà ricordare che la scapigliatura, intesa come impegno d’avanguardia in letteratura e in politica, oltre che preludere al decadentismo troverà un tenace filo conduttore fin entro il nuovo secolo nella poliedrica e complessa attività del verslibriste Gian Pietro Lucini (Milano, 1867-Breglia, 1914), sodale del Dossi, che sarà, sia pure per breve tempo, vicino ai futuristi, e nella pubblicistica a sfondo antiborghese e scandalistico e nella attività di agitatore socialista di Paolo Valera (Como, 1850-Milano, 1926).

2. Narratori fra romanticismo, scapigliatura e verismo

Nel complesso panorama letterario del secondo Ottocento, tra l’affermarsi della linea della scapigliatura e di quella tanto piú importante e vasta del verismo, si dovrà anche tener conto della presenza di posizioni e di figure di narratori (la narrativa prevale complessivamente nell’attività letteraria di questo periodo, rispondendo al diffuso bisogno di una rappresentazione della vita e della realtà piú diretta e meno sublimata e riassunta nelle forme liriche della poesia) che meno direttamente possono inquadrarsi nelle precise prospettive della scapigliatura e del verismo e che pure a volte ne risentono parzialmente. In certi casi si tratterà di una ripresa e di una specie di continuazione aggiornata della lezione della narrativa e della prosa manzoniane che venivano esaltate, nella loro novità di popolarità, di comunicabilità, di distacco da una tradizione aulica e lirica, da uno scrittore e critico come Ruggero Bonghi, che appunto, nelle sue Lettere critiche del ’55, proponeva decisamente l’esempio della prosa manzoniana «umana, naturale, esatta e vera» di contro alla prosa tradizionale, classicheggiante e retorica, cui attribuiva la colpa di aver reso la letteratura in Italia non popolare, non accessibile al popolo e perciò ristretta ad un pubblico scarso e culturalmente aristocratico.

Cosí al modello manzoniano di una narrativa semplice e naturale in una prosa e lingua nazionale e popolare si rifanno piú da vicino alcuni narratori e scrittori piú chiaramente «manzoniani», come il toscano Ferdinando Martini (1841-1928), pubblicista e narratore, memorialista di arguto buon senso e di prosa spigliata e fresca, o come il narratore sardo Salvatore Farina. In una posizione invece di manzonismo non privo di risonanze della nuova esigenza di piú puntuale attenzione realistica portata dal verismo dovranno ricordarsi Edmondo De Amicis (Oneglia, 1846-1908), celeberrimo autore di Cuore (libro fondamentale nella letteratura educativa di secondo Ottocento) e autore di una abbondantissima produzione di novelle e bozzetti (le raccolte Le Novelle, Vita militare, La carrozza di tutti), di narrazioni di viaggi (Spagna, Olanda, Marocco, Costantinopoli), in cui questo candido e generoso, ma limitato e superficiale scrittore esprimeva insieme i suoi ideali patriottici e umanitari (spintisi negli anni tardi fino ad un certo socialismo generico, roseo e poco combattivo), il suo moralismo talvolta assai sentimentale, enfatico e sdolcinato, il suo gusto cronachistico, di riproduzione minuta e arguta della realtà attraverso scorci, scenette, bozzetti, spesso assai felici e tali da attrarre i consensi e il favore di un vastissimo pubblico di lettori. Cosí come dovrà ricordarsi in tal direzione, di manzonismo reso piú attento a una realtà quotidiana e minuta, Carlo Collodi (pseudonimo di Carlo Lorenzini, nato a Collodi, vicino a Lucca, nel 1826 e morto nel 1890), autore di un altro celebre libro per l’infanzia, Pinocchio (1883), tanto piú fine del deamicisiano Cuore, tanto piú ricco di fantasia e di esperienza della vita e della psicologia umana, che cosí concretamente e sicuramente sostengono un proposito educativo discreto e sempre risolto nella vivacità e arguzia del racconto gustoso e ben condotto.

Tanto piú rilevante e complessa risulta poi, in un ambito in cui la fedeltà al Manzoni si complica con avvicinamenti alla problematica della scapigliatura e del verismo, la figura e l’opera del milanese Emilio De Marchi (1851-1901). Questo notevolissimo narratore si era formato entro il ricco ambiente letterario milanese fra la lezione del realismo e della moralità del Manzoni, l’esperienza dell’irrequieta ribellione della scapigliatura, quella del verismo con la sua piú forte attenzione alla rappresentazione dell’ambiente e della situazione sociale. Da questa complessa formazione, in cui campeggia un’idea dell’arte moralmente utile (un’idea in cui al di là dello stesso Manzoni lo scrittore milanese risente modernamente di tutta la forte tradizione morale lombarda da lui amata), il De Marchi ricavò gli elementi essenziali della sua narrativa e della sua prosa dimessa, pacata e a volte un po’ grigia, attenta alla realtà, ai drammi oscuri e silenziosi di personaggi modesti (per lo piú di estrazione popolare o piccolo-borghese), chiusi nelle loro pene e pure scossi da un certo fermento passionale (e da momenti di ribellione alla società che li mortifica in una squallida vita di sacrifici e di sconfitte) che essi compirono nel loro riserbo e nella loro dignità dolente e rassegnata.

Capolavoro del De Marchi è perciò il romanzo Demetrio Pianelli (1890), in cui viene rappresentato l’oscuro sacrificio di un povero impiegato, scontroso, solitario, ma generosissimo, tormentato dall’assurdo amore per la bella e giovane cognata rimasta vedova dopo il suicidio del marito (provocato dalle conseguenze di una vita di lusso sproporzionato alle sue possibilità), ma deciso a non rivelare quel suo amore senza speranza e ad aiutare, a forza di privazioni e di lavoro massacrante, la cognata e la sua piccola famiglia, senza chiedere nulla per sé.

La rappresentazione di questo personaggio umile e dignitoso, oppresso dalla sorte e tormentato dalla sua chiusa e vana passione, si intreccia con quella degli altri personaggi e dei loro caratteri (quello fondamentalmente buono, ma spensierato della cognata, quello delicatissimo della nepotina, quello vanitoso e fatuo del fratello Cesarino), si svolge sullo sfondo di un paesaggio cittadino e suburbano di singolare efficacia realistica e di malinconica poesia.

Il ritmo generale di questo potente romanzo è lento e assorto, come il suo colore dominante è un grigiore dolente e oppressivo. Entro questo ritmo e tono generale, la cui coerenza fa del Demetrio Pianelli una delle opere narrative piú alte e sicure del secondo Ottocento, si staccano poi pagine e sequenze di particolare densità drammatica e di indimenticabile efficacia. Si pensi soprattutto alle pagine potenti che narrano il suicidio di Cesarino Pianelli, che riportiamo nell’antologia: dopo la tormentosa e vana ricerca di rimediare alla sottrazione di una somma dalle poste dove è impiegato, per far fronte ai suoi debiti, Cesarino abbandona la rumorosa festa di carnevale in cui furoreggia la bella moglie ignara, percorre le vie milanesi lugubremente bagnate di pioggia, rientra in casa e, dopo un muto e struggente addio alla piccola figlia che dorme serena, si slancia – in un crescendo possente quanto piú disadorno e nudo – nella soffitta dove si ucciderà mentre dal basso salgono le prime voci animate della ripresa mattutina della vita.

Tutto è serrato, implacabile, e nessun commento, nessuna concessione ornamentale o sentimentale viene a interrompere lo svolgersi lucido di questa tragedia cosí sobria e cupa.

Né del resto anche in altri romanzi (come soprattutto Il cappello del prete, Arabella, Giacomo l’idealista), pur se piú diseguali dal Demetrio Pianelli, o in alcuni racconti (fra i quali spicca quello da noi riportato nell’antologia: Carliseppe della Coronata), non può non riconoscersi la mano sicura di un narratore originale e ben significativo nella forte ispirazione narrativa del secondo Ottocento.

Assai singolare è infine la posizione e la figura del faentino Alfredo Oriani (1852-1909), romanziere e scrittore di opere storico-politiche, animato da un innegabile fervore passionale e da un’acre polemica contro il proprio tempo e la società italiana postrisorgimentale, proteso nei suoi romanzi ad un’analisi inquieta, ad una rappresentazione accesa e violenta di stati d’animo torbidi ed esaltati, ma incapace di raggiungere cosí una vera sicurezza e misura artistica come una lucida e coerente espressione dei suoi ideali storico-politici.

E infatti nel campo delle opere storico-politiche (Fino a Dogali, del 1889; La lotta politica in Italia, del 1892; La rivolta ideale, del 1908) le sue ricostruzioni della storia italiana e le sue proposte di ideali esasperatamente nazionalistici e imperialistici (per i quali le sue opere ebbero poi grande fama nel periodo della dittatura fascista, che vide in Oriani un proprio precursore) hanno sempre un che di convulso e di confuso, mancano di lucidità e di vero vigore intellettuale. E cosí in campo narrativo le sue qualità piú realistiche (e a volte crudamente veristiche) sono intorbidate da un pathos ultraromantico, da una violenza moralistica e declamatoria, che si sovrappone al racconto e lo carica di significati simbolici torbidi e incerti; ciò che si verifica piú chiaramente nei romanzi piú giovanili (come Al di là), ma che non manca neppure nei suoi romanzi migliori e piú maturi, come Gelosia, La disfatta, Vortice, Olocausto, nei quali al suo originario romanticismo e alla componente realistica si associano fermenti di nuova inquietudine ormai decadente.

3. La letteratura garibaldina

La letteratura garibaldina costituisce un settore particolare della nostra letteratura ottocentesca e lo costituisce non solo a causa del contenuto puro e semplice (la memoria pubblica e privata dell’epopea garibaldina, in particolare della campagna di Sicilia, ma non esclusivamente, ché alcune di queste memorie riguardano altri momenti di quell’epopea, la resistenza romana del ’49, la campagna del ’59, quella del ’66 nel Trentino, i fatti di Aspromonte e di Mentana, la campagna in Francia del ’70), ma anche perché si presenta compattamente come il piú organico insieme di letteratura memorialistica che il secondo Ottocento ci abbia dato. Essa nasceva nella realtà quando venivano apparendo ancora quei libri di memorie che accompagnarono letterariamente piú da vicino la storia italiana fino all’unità, anzi piú precisamente, ché sovente essi si fermavano a quell’anno o dintorni, fino al ’48: i libri di D’Azeglio, di Settembrini, piú indietro di Pellico, piú avanti di De Sanctis. Questi motivi sono quelli che consentono di discorrerne unitariamente, al di là delle posizioni politiche diverse che riflettono, come anche al di là della qualità letteraria che mostrano.

Politicamente essi sono distinti principalmente dalle vicende ideologiche dei loro autori nel tempo che li vennero scrivendo, generalmente molto dopo i fatti narrati: di questi scrittori alcuni finirono coll’accettare la soluzione monarchica del Risorgimento nazionale, altri invece furono maggiormente permeati dalle istanze democratiche che il garibaldinismo portava in sé fin dalle sue origini e che posero in seguito lo stesso Garibaldi all’opposizione e alla testa del partito d’azione.

Letterariamente l’opera che fu lavorata con maggior cura e che insomma si trovò ad avere un impianto piú sicuro da tale punto di vista fu quella di Giuseppe Cesare Abba (Cairo Montenotte, 1838-Brescia, 1911) intitolata Da Quarto al Volturno. Noterelle di uno dei Mille. Intanto va detto che Abba fu e volle essere, e fu anche incoraggiato su questa via dal Carducci, un vero scrittore e non solo il cantore estemporaneo o il cronachistico narratore dell’epopea siciliana di Garibaldi. E, se dedicò parecchie altre opere alle cose garibaldine (Storia dei Mille, Vita di Nino Bixio, Cose garibaldine), fu prima autore di un romantico poema sull’impresa di Sicilia, Arrigo (1866), e di un romanzo, Le rive della Bormida nel 1794, di gusto manzoniano ma tutt’altro che da dimenticare. Quindi alle Noterelle dedicò molta cura, le scrisse e le riscrisse tre volte (1880, 1882, 1891) e finí col farne un libretto letterario, un’opera, come è stato sottolineato, che richiama nella sua studiata finitezza certa scultura celebrativa dell’Ottocento, un po’ enfatica, un poco esteriore nel gusto dei particolari, ma nobile nell’insieme. Un contrasto di base esisteva nella sua attività di memorialista garibaldino: la decisione di seguire una sorta di tracciato diaristico, di raccontare come se le cose fossero appena avvenute, contrastava col piacere di una perfezione da ottenere nella misura dell’evocazione e del racconto (ed era un contrasto culturale tra l’istanza realistica del Romanticismo e il perdurante peso di un richiamo alla stilizzazione dei classici). Questo contrasto egli risolse con uno slancio lirico che pervade ogni pagina del suo racconto e che bene s’armonizza col suo gusto classico della semplicità, della brevità. Cosí riuscí a conservare nella sua scrittura la fresca impressione del bozzetto. Semmai ciò che mortificò irrimediabilmente fu la spinta ideologica del garibaldinismo: ma mai scese all’oleografia. Del resto a dar vita a quell’ideologia doveva essere un senso piú criticamente avvisato delle vicende storiche che s’erano vissute; ma questo non poteva venire da una semplice operazione letteraria.

Anche altri memorialisti garibaldini schivarono ogni piú fondo impegno ideologico. Nino Costa, romano (1826-1905), in Quel che vidi e quel che intesi, intessé le vicende della sua vita a quelle garibaldine e narrò con vivo gusto di pittore (ché del resto era tale); Augusto Vecchi, marchigiano (1814-69), versò un pieno di commossa umanità nel suo Garibaldi a Caprera (1862).

Sarà quindi piú facile trovare una dimensione autentica della realtà garibaldina in libri schivi di ogni sovrastruttura letteraria, pure cronache talvolta, o viceversa volontariamente volti a smitizzare, a presentare in tutta la loro freschezza, immediatezza non elaborata, quotidianità, i momenti della vita di garibaldino. Tali i libri di Giuseppe Bandi, livornese (1834-1894), I Mille (1886), notevole per una sorta di pacata volontà cronachistica che lo sorregge e che ne fa una struttura limpida, di Eugenio Checchi, anch’egli livornese (1838-1932), Memorie alla casalinga di un garibaldino (1866), di Ettore Socci, pisano, acceso democratico (1846-1905), Da Firenze a Digione.

All’altro estremo, dettati da una passione prima di tutto ideologica, sono i libri di Alberto Mario, repubblicano e democratico (Lendinara di Rovigo, 1825-1883), La Camicia rossa (1870), opera diseguale, ma in cui si incontrano pagine di grande forza per sobrietà (come quella dell’incontro di Teano, animata d’altronde dalla viva antipatia per il re, per i boriosi generali regi), di Achille Bizzoni, pavese (1841-1903), vicino poi al Cavallotti nelle battaglie democratiche e radicali milanesi del secondo Ottocento, Impressioni di un volontario dell’esercito dei Vosgi (1874). Un ricordo a parte merita infine l’opera, Con Garibaldi alle porte di Roma (1895), del savonese Anton Giulio Barrili, autore di molti romanzi fortunati, conferenziere e professore brillante, che in quelle memorie racconta pensosamente e con sottile, ben governata malinconia l’impresa di Mentana. Ricorderemo infine che Garibaldi stesso scrisse parecchio (ma senza intenti di qualche portata letteraria) e interessanti sono le sue Memorie (1888).

4. Il verismo

La forte tendenza al reale, che, salendo dal Manzoni e da altre esperienze e personalità del romanticismo (si pensi soprattutto al Nievo specie nel Novelliere campagnolo), si fa sempre piú forte nel secondo Ottocento, diviene a un certo punto, negli anni fra ’70-80, spinta centrale e rinnovatrice della nostra cultura e letteratura precisandosi – in sede letteraria – nel movimento che assume il nome di verismo.

Il verismo ha una complessa azione in quanto in esso confluiscono stimoli e influenze delle letterature straniere ed elementi propri dello sviluppo realistico italiano motivato da condizioni storiche, politico-sociali, culturali e da istanze piú specificatamente letterarie, ma a quelle condizioni fortemente collegate.

Per quanto riguarda i rapporti con le letterature straniere va soprattutto rilevata l’importanza che per la nascita del verismo ebbe la conoscenza in Italia della vasta e nuova produzione narrativa europea e particolarmente di quella francese che prese il nome di naturalismo e trovò i suoi banditori e realizzatori in romanzieri come i fratelli Goncourt, Maupassant, Flaubert e soprattutto Zola, la cui opera – già vedemmo – tanto aveva colpito il grande De Sanctis, che intorno ad essa scrisse vari saggi esprimendo la sua forte ammirazione, ma anche chiare limitazioni dovute alla sua esigenza di una fusione tra reale e ideale che a lui pareva troppo impoverita dall’eccessivo predominio di un reale pesante e meccanico nell’arte del romanziere francese.

Ma, malgrado tali limitazioni (del resto assai significative per lo stesso sviluppo del verismo italiano che temette sempre una riduzione dell’arte a riproduzione fotografica della realtà e risentí a suo modo della lezione del De Sanctis), il grande critico ben sottolineava la novità e l’importanza della poderosa opera narrativa zoliana che, come tutto il naturalismo, si opponeva vigorosamente ad ogni vago idealismo, ad ogni residuo romantico di fantasticheria oziosa, di sentimentalismo e di lirismo autobiografico e rappresentava una salutare adesione alla vita, alla sua verità, realtà, naturalezza, un’arte impersonale (alla cui esigenza rispondeva la forma del romanzo e in genere della narrativa), rappresentazione oggettiva delle cose, delle vicende, dei personaggi lasciati parlare da sé, con la forza delle loro azioni e situazioni reali, e in uno stile il piú possibile consono alle condizioni dei personaggi e degli ambienti rappresentati, alieno da ogni ornamento estrinseco, da ogni nobilitazione aulica.

Il naturalismo europeo e particolarmente francese non era del resto esso stesso un puro fatto letterario, perché esso si legava all’affermazione della filosofia e cultura del positivismo che metteva in primo piano i «fatti», il «positivo», la scienza (di contro all’idealismo e allo spiritualismo prevalenti nell’epoca romantica), e che appunto con il metodo della scienza, in cui nutriva profonda fiducia, intendeva spiegare tutti gli aspetti della natura e della vita umane, facendo dell’uomo (con la teoria evoluzionistica del Darwin) un animale di origine simile a quella delle altre specie e poi evolutosi alla sua condizione di homo sapiens attraverso la selezione naturale e l’affermazione delle sue disposizioni lentamente formatesi nel lungo cammino della storia naturale e umana. Di questo uomo, privo di ogni origine divina, pieno di istinti atavici, eppure forte della sua evoluta ragione e della sua scienza, la letteratura naturalistica intendeva studiare e rappresentare la vera realtà e il faticoso moto di progresso individuale e sociale, combattendo insieme una generosa battaglia per l’elevazione degli strati inferiori e oppressi, delle classi subalterne e proletarie, di cui bisognava anzitutto comprendere i bisogni effettivi e le effettive condizioni, entro la nuova società industriale e capitalista, essa stessa oggetto di rappresentazione nelle sue leggi economiche ferree, nella sua corruzione e ingiustizia. Cosí (e lo si vede soprattutto nell’opera dello Zola, democratico coraggioso e impegnato) il naturalismo francese costituiva un tipo di letteratura sociale, ispirato da istanze di progresso e di elevazione delle masse, e perciò volto ad un pubblico vasto e popolare e non piú solo ad un pubblico di alta cultura e di alte condizioni sociali. Donde anche la ricerca di un linguaggio prosastico e narrativo diverso da quello illustre tradizionale, realistico e scarno, impersonale e affiatato con il linguaggio comune e popolare.

In questo senso complesso di motivazioni filosofico-scientifiche positivistiche, sociali-politiche e letterarie il naturalismo francese rappresenta certo la punta piú avanzata della nuova corrente realistica europea, anche se spesso la sua ambizione scientifica (la letteratura come branca della scienza e della storia naturale) poteva divenire un limite artistico, una forma di eccessiva schematizzazione e di un determinismo nella rappresentazione dei caratteri (condizionati dagli elementi di fattore ereditario, ambiente sociale, momento storico) a volte pesante e macchinoso.

Ma, come si diceva, il verismo, che pur tanto deve agli stimoli del naturalismo francese, non è il semplice risultato di tali stimoli e influenze, non è semplicemente una nuova moda straniera importata in Italia. Infatti anche in Italia i nuovi ideali del positivismo ebbero un loro particolare sviluppo investendo tutta la cultura, fino alla stessa critica letteraria che si chiamò «storica» e che portò una piú forte attenzione ai dati positivi, alla rigorosa ricostruzione filologica dei testi, alla storia, spesso alla cronaca, delle opere e della vita degli scrittori studiati.

D’altra parte in Italia l’esigenza di una narrativa, fortemente realistica e attenta al «vero», alla vera realtà dell’uomo e della sua condizione ambientale e storica (nonché ad una rappresentazione della vita delle plebi tanto a lungo ignorate dalla letteratura), aveva delle sue ragioni e condizioni particolari e autentiche, oltre all’appoggio che le veniva in parte soprattutto dal realismo del Manzoni e dalla sua attenzione alla storia degli «umili».

Appoggio quest’ultimo certo molto importante, ma non tale da permettere una specie di continuità fra i Promessi Sposi e la scuola verista che, fra l’altro, scarterà risolutamente sia il modo di intervento personale dello scrittore, come osservazioni e commenti nella narrazione delle vicende, sia la sua sicura fede cristiana nella provvidenza.

Le nuove ragioni del verismo italiano sono anzitutto da individuare, oltre che nella presenza della cultura positivistica, nella situazione storica, politica e sociale dell’Italia (assai diversa da quella in cui si formò il naturalismo francese) dopo la creazione dello Stato unitario, la conclusione positiva (ma di una positività assai discutibile) del movimento risorgimentale. Infatti la creazione dello Stato unitario spingeva i nuovi scrittori a meditare e a tradurre narrativamente le reali, le vere condizioni della nuova vita nazionale, di una conquista di unità piú politica che sociale (l’enorme squilibrio fra il Nord in via di industrializzazione e con i nuovi problemi del proletariato urbano, e il Sud poverissimo e in una situazione di latifondismo agrario improduttivo e oppressivo per la popolazione non possidente), e insieme li spingeva a prendere e a far prendere coscienza, con l’arma di una narrativa oggettiva e realistica, della situazione concreta delle varie regioni frettolosamente unificate in uno stato fortemente burocratico e centralizzato, ma in realtà cosí diverse fra di loro, con particolari problemi concreti mal livellabili in un’unica prospettiva nazionale.

Da ciò deriva la tendenza predominante del verismo italiano a trattare in romanzi e in racconti argomenti di vita locale e regionale, e insieme a considerare prevalentemente (anche se in teoria il verismo rappresentava tutti i gradi della società) le condizioni e i caratteri delle classi inferiori e oppresse, portando nella rappresentazione oggettiva della loro situazione di miseria un’inevitabile carica di pietà e di indignazione morale e ricercando in quei personaggi primitivi e quasi barbarici la loro autenticità di passioni e la loro dignità umana.

Ed è chiaro che in questa spinta sociale e umanitaria (che pure non raggiunge mai il vero slancio combattivo e progressivo che si può avvertire in scrittori europei, come Zola, attivi in una situazione sociale piú matura ed entro una coscienza piú chiara dei contrasti di classe) si riflettono sia la maggior timidezza di una società, come quella italiana, piú arretrata e dotata di minor coscienza e tradizione democratica ed egualitaria, sia le gravi delusioni di iniziali speranze e illusioni a causa dell’impressione diffusa di una invincibile immutabilità del vecchio ordine sociale non intaccato dal Risorgimento e dalla unificazione nazionale. Donde quel certo prevalente pessimismo, fatalismo, e persino scetticismo che domina nella narrativa verista e che conduce a volte narratori partiti con una carica politico-sociale innovatrice a ripiegare, per delusione e scarsa chiarezza ideologica, su posizioni conservatrici.

Malgrado tali limiti e condizioni particolari (verificabili specie nel confronto con le forme piú aggressive, combattive e sicuramente progressive di altre letterature europee dell’epoca del naturalismo), malgrado quel certo paternalismo umanitario che non raggiunge mai una posizione piú audace e di vera rottura, il verismo italiano ha storicamente avuto l’indubbio merito di mettere a nudo le reali condizioni sociali del paese, di rappresentare la miseria e la sconfinata sventura delle classi sfruttate (specie del Sud) e di rilevarne insieme la dignità umana, la ricchezza di passioni e di sentimenti pur nella elementarità della loro psicologia di contro all’egoismo e alla corruzione delle classi dominanti.

Naturalmente non mancano nella narrativa verista, cosí varia e mal rappresentabile in schemi generali e livellatori, cadute nel gusto piú facile del macchiettismo, del bozzettismo, di certa idillica e pittoresca descrizione di folklore e di costumi locali, ma nella sua tensione piú alta e nei suoi rappresentanti maggiori si fa luce una prospettiva narrativa realistica veramente nuova e importantissima, che incide profondamente sul corso della nostra letteratura moderna, anche se – come poi vedremo – il nuovo insorgere di istanze spiritualistiche e decadenti alla fine del secolo disgregherà la forza del movimento verista (a volte con esiti d’involuzione, a volte invece con un nuovo arricchimento della poesia e della conoscenza della situazione umana nelle sue radici piú segrete e inconscie).

La produzione verista si appoggia a una direzione centrale di poetica, di programma letterario che, riassorbendo gli elementi piú realistici già emersi dal seno del romanticismo e affiatandosi con le poetiche del naturalismo specie francese, rifiuta decisamente tutti gli aspetti della tradizione aulica e classicistica e quelli del romanticismo sognatore e sentimentalistico, le intrusioni autobiografiche, le effusioni personali dello scrittore, e afferma decisamente il primato assoluto della rappresentazione oggettiva e quindi delle forme della narrativa, romanzo e racconto (e subordinatamente quelle del dramma teatrale), come piú adatte alle esigenze di tale rappresentazione. Soprattutto il romanzo appare «la piú completa e la piú umana delle opere d’arte», la piú congeniale ad un’arte bisognosa di verità e di realtà, quella in cui lo scrittore scompare nell’opera e questa assume l’aspetto di un avvenimento naturale e reale quasi da sé.

Da qui la ricerca dello «studio dal vero», la scelta del «documento umano», la tensione a ricostruire i «fatti» nel loro processo e nelle loro determinazioni e condizioni ambientali, sociali, economiche, con una volontà di metodo scientifico, di precisione analitica che può scadere a volte in una certa meccanicità, ma che là dove si incontra con un’autentica vocazione artistica asseconda una narrazione particolareggiata, concreta, costruttiva con una specie di necessità interna opposta all’arbitrio della fantasticheria e del divertimento ozioso e gratuito.

Da qui l’essenziale canone dell’impersonalità dell’opera d’arte che non significa un’assurda automaticità del fatto artistico, ma una cosí profonda immersione dell’autore nella sua opera, una sua cosí completa immedesimazione con le cose che narra, che l’opera deve acquistare un rigore di costruzione, una misura concreta esenti da ogni arbitraria deformazione e da ogni infedeltà alla sua logica interna.

E nei casi piú alti (si pensi soprattutto al Verga) ciò non comporta una perdita di originalità e di poesia, ma una specie di estrema serietà e umiltà dello scrittore di fronte alla viva materia che tratta e alla cui rappresentazione oggettiva egli fa servire le sue qualità artistiche e poetiche. Alla fine la poetica verista sembrava realizzare le aspirazioni già del De Sanctis «tal contenuto, tal forma» e l’«ideale» non perduto, ma fatto vivere tutto dentro il «reale».

Tali principi di poetica furono espressi in sede programmatica da molti degli scrittori veristi e soprattutto da Luigi Capuana, certo il maggior teorico della nuova corrente.

Luigi Capuana, nato a Mineo, vicino a Catania, nel 1839, visse a lungo a Firenze, a Milano (il centro piú attivo e vivo della nostra letteratura nel periodo della scapigliatura e del verismo) e a Roma, dove insegnò al Magistero, per poi ritornare in Sicilia, a Catania, dove morí nel 1915. Dotato di indubbie qualità critiche che lo resero acuto interprete di tanta letteratura del suo tempo (a lui si deve la prima convinta indicazione del valore eccezionale del Verga), il Capuana associò alla sua attività di critico militante e di formulatore e banditore delle teorie veristiche una vasta e intensa attività di narratore in cui egli intendeva personalmente applicare e realizzare i princípi della nuova scuola. E certo un romanzo come Giacinta, uscito nel ’79, ben rappresenta l’applicazione delle istanze del verismo e di una narrativa che ha assimilato la lezione del romanzo naturalistico europeo, con la sua attenzione ai «documenti umani» esaminati e ricostruiti con studio accurato anche se (si tratta di un limite delle capacità costruttive del Capuana) non ben fusi e collegati nella struttura complessiva del romanzo. Significativi per l’applicazione personale delle teorie veriste da parte del Capuana sono anche i racconti raccolti nei volumi Appassionate (1893) (che narrano casi di coscienza dolorosi o tragici di piú complicata psicologia) e, con maggior vicinanza alla tematica verghiana, quelli raccolti nel volume Paesane (1894), che rappresentano vicende e caratteri dell’ambiente rusticano con le sue elementari e schiette passioni, e anche con i suoi aspetti di comicità macchiettistica, mentre da quell’ambiente popolare e campagnolo il Capuana, attratto dal folklore e dalle leggende popolari care al regionalismo veristico, sapeva ricavare delle fiabe e bozzetti per bambini (il volume C’era una volta) che sono fra le sue cose piú felici e ispirate. Infine andrà ricordato, come la piú impegnativa prova narrativa del Capuana, Il marchese di Roccaverdina (1901), in cui la disposizione all’indagine psicologica piú complicata e a volte morbosa trova maggiore equilibrio con la forte attenzione alla realtà ambientale intorno a personaggi e situazioni drammatiche bene abbozzate, anche se un po’ schematicamente realizzate. Infatti il Capuana non ha vera e grande forza artistica e le sue opere valgono soprattutto come esperimenti e prove della sua prospettiva e dei suoi programmi artistici, della sua battaglia intelligente e complessa per l’affermazione dell’arte veristica; battaglia d’altra parte non priva di incertezze e di oscillazioni intorno alla dominante ricerca di una narrativa veristica a causa della continua attenzione dello scrittore all’evoluzione della letteratura del suo tempo e quindi anche a certi fermenti di tipo spiritualistico-decadente che in quella venivano affiorando. Ma tale irrequietezza non toglie certo valore all’importanza del Capuana nella elaborazione della centrale direzione veristica, delle sue istanze di un’arte oggettiva, «impersonale», fondata sui «documenti umani», sull’aderenza alla verità della realtà, sul dovere dello scrittore di rappresentare con studio attento e quasi scientifico la società nei suoi vari gradi e condizioni.

Se Capuana rimane il maggiore formulatore e banditore delle teorie del verismo, il grande realizzatore artistico delle istanze veristiche è invece Giovanni Verga.

5. Giovanni Verga

La poetica del verismo trova la sua realizzazione piú alta e originale nell’opera narrativa di Giovanni Verga, il nostro maggiore narratore dopo il Manzoni, che nell’accettazione di quella poetica risolve le sue iniziali incertezze e in quella poetica immette una straordinaria e personalissima forza di poesia superandone i limiti piú programmatici e scolastici e traendone un appoggio di persuasione e di tecnica che permette alla sua poesia di costruirsi in opere di eccezionale valore e vigore artistico.

Le opere del Verga costituiscono cosí, insieme, l’approdo piú alto delle esigenze del verismo e una grande realtà artistica, il cui esempio rimarrà sempre nella storia della nostra letteratura moderna un punto eccezionale di riferimento a quanti vorranno far scaturire la poesia dalla realtà, far valere la fantasia e il sentimento non in dimensione di sogno e di evasione, ma nella densità stessa delle cose e delle reali condizioni della vita umana.

Nato a Catania il 2 settembre 1840 in una famiglia di possidenti, il Verga compí studi umanistici sotto la guida di uno scrittore provinciale, l’Abate, che assecondò le native disposizioni artistiche dell’allievo, che ben presto si sentí destinato all’attività letteraria, sicché, iscrittosi, nel 1858, alla Facoltà di Legge dell’Università di Catania, dopo pochi anni egli decideva di interrompere gli studi universitari e di seguire interamente la sua vocazione di scrittore e la passione patriottica e garibaldina che lo portò a servire per quattro anni nella Guardia Nazionale e a sostenere come giornalista gli ideali unitari. Ma l’ambiente letterario e culturale catanese aveva modeste risorse, scarso respiro, e il Verga ne avvertí ben presto tali limiti, e cercò un ambiente piú adeguato alla sua sete di relazioni sociali e letterarie, nonché di affermazione e di successo, nella Firenze allora capitale d’Italia, prima, dal ’65 in poi, facendovi frequenti viaggi, poi soggiornandovi piú stabilmente dal ’69 al ’72 e usufruendovi di numerosi contatti con letterati italiani (soprattutto rappresentanti del tardo romanticismo) e con un mondo elegante arricchito (specie nel salotto di Ludmilla Assing) da elementi stranieri frequenti nella cospicua colonia cosmopolita fiorentina.

Il centro piú vivo dell’Italia del tempo era però Milano e il Verga vi si traferí nel ’72 per rimanervi per un ventennio (pur ritornando spesso, a periodi piú o meno lunghi, in Sicilia) fecondo di esperienze, di relazioni e amicizie tra letteratura e ambiente mondano e teatrale, fra la frequentazione dei caffè e dei piú brillanti salotti (come quello della contessa Maffei), l’amicizia con scrittori della scapigliatura e del verismo (fra tutte importante quella che lo legava strettamente al Capuana fin dai tempi di Firenze), l’assidua partecipazione alle recite e alle rappresentazioni della Scala.

È in questo periodo, come poi meglio vedremo, che il Verga matura la sua visione della vita e la sua prospettiva artistica e le traduce nelle sue opere piú impegnative e fondamentali.

Solo nel ’93 (mentre veniva disseccandosi la sua vena creativa) il Verga (amareggiato anche da controversie editoriali e dalla impressione di un successo impari alla sua coscienza di aver scritto opere di eccezionale novità e grandezza) lasciò Milano e si ritirò definitivamente a Catania, dove (specie dopo il primo lustro del nuovo secolo) egli progressivamente si isolò in una vita di benestante senza compagni e occupazioni, e si chiuse in un amaro e superbo silenzio, in un pessimismo sempre piú desolato e totale, in un distacco dalla vita letteraria e dalle vicende del gusto che tardivamente venne volgendosi al riconoscimento pieno della sua grande arte, negli anni immediatamente precedenti alla sua morte, avvenuta il 27 gennaio 1922.

Già in una considerazione piú particolareggiata della sua vicenda biografica si potrebbe verificare un elemento fondamentale dell’uomo e dello scrittore: la forza dei sentimenti e degli ideali viene progressivamente non sacrificata, ma contenuta da un riserbo possente, da un controllo virile e dolente, da una visione della vita che si fa sempre piú pessimistica e fatalistica fino a concludersi nel silenzio e nel distacco degli ultimi anni. Ma prima di questa conclusione – che può indicare anche come il Verga fosse scrittore incapace di proseguire a produrre solo per ragioni e ambizioni di mestiere, quando la sua profonda passione per la vita si era interamente raggelata – la forza di rappresentazione della vita aveva trovato in quel riserbo e controllo, in quella visione pessimistica, fatalistica, severa e pur pietosa e commossa una condizione personale propizia alla costruzione della sua arte matura che insieme si avvalse dell’incontro con la poetica veristica, con i suoi canoni piú interni dell’impersonalità, dell’obbiettività, della naturalezza. Non si trattò di una facile conquista di maturità, ché anzi il lungo sviluppo precedente alla maturità si presenta tutt’altro che lineare, ed è contraddistinto da una serie di esperienze complesse e artisticamente assai tormentate.

Il Verga aveva iniziato il suo precoce noviziato letterario con alcuni romanzi storici (Amore e patria e I carbonari della montagna) enfatici, pieni di luoghi comuni, legati alla lettura dei romanzi storici francesi alla Dumas, e percorsi da una entusiastica passione patriottica. Poi, abbandonato il romanzo storico e patriottico per una ricerca di rappresentazione di drammi intimi nella cornice di un ambiente contemporaneo (il caso già del romanzo del ’63, Sulle lagune), il Verga venne esprimendo la sua vocazione narrativa in una serie di romanzi che risentono, con varia intensità e chiarezza, dell’incontro fra un clima letterario tardo-romantico e istanze della scapigliatura (quest’ultime piú risentite nell’ambiente milanese), e che rappresentando un mondo aristocratico insieme tendevano a svelarne le menzogne, le ipocrisie, le convenzioni, e a rivelarne e svilupparne – con forte adesione autobiografica e passionale – i drammi, le passioni e le avventure fra torbide e singolari, in un ambiente ritratto con crescente forza realistica.

Si tratta di Una peccatrice, del ’66, della Storia di una capinera, del ’69, (opera ai suoi tempi fortunatissima per lo sviluppo di un caso patetico – una monacazione forzata – in una forma espressiva esuberante e sfrenata), di Eva e Tigre reale, del ’73, di Eros del ’75.

Ma – mentre in questi stessi romanzi cresce progressivamente un senso dolente di pessimismo e di fatalità (molti dei protagonisti di questi romanzi sono già dei vinti, degli sconfitti nella loro vana ansia di vita, di amore, di affermazione) che costituisce il motivo centrale dello sviluppo verghiano al di là della distinzione degli ambienti ritratti e delle mode letterarie cui si avvicina – già nel ’74 il Verga scriveva una novella, Nedda, in cui una maggiore secchezza narrativa (di contro alla scomposta esuberanza e ai modi incerti dei romanzi, che pur andavano acquistando maggiore vigore espressivo insieme al crescere del pessimismo e della critica della società) corrispondeva a una fermezza nuova dello scrittore nel guardare alla realtà, ad un piú rattenuto senso di pietà, ad una maggiore fusione tra personaggi e ambiente, ad un piú preciso e concreto impegno polemico nei confronti di una realtà sociale (la miseria della popolazione rurale siciliana di cui è rappresentante la protagonista della novella, una povera raccoglitrice di ulive) che era insieme per il Verga la realtà conosciuta e amata della sua terra natale, per lui tanto piú viva e poetica di quanto non fosse la realtà degli ambienti mondani borghesi e aristocratici fino allora da lui rappresentati.

Con quella novella (pur tutt’altro che immune da limiti narrativi e stilistici) il Verga toccava i suoi temi e i suoi toni piú congeniali e si avviava sulla strada del suo piú autentico realismo narrativo, anche se la spinta al romanzo di ambiente borghese-aristocratico non si era ancora esaurita, e se doveva passare ancora qualche tempo perché lo scrittore si impegnasse con piú chiara consapevolezza nella narrativa piú propriamente realistica e veristica. Ciò avvenne con la novella Fantasticheria, del ’79, che piú direttamente avvia la lunga e formidabile opera della narrativa dello scrittore, sulla base di una presa di coscienza delle sue piú vere scelte e del suo vero mondo poetico nel rifiuto della tendenza romantica e autobiografica dei primi romanzi, nella ricerca della sincerità e della concretezza, nella rivelazione a se stesso della congenialità del mondo della povera gente di Aci Trezza (il paesino del catanese in cui la novella immagina un ritorno dello scrittore insieme ad una signora del gran mondo, che presto si stanca della monotonia insopportabile di quella vita primitiva) per la sua schiettezza elementare, per le sue pene sofferte con tanta dignità coraggiosa e in forza di quella religione della famiglia che tanta parte avrà nella poesia dei Malavoglia.

In quella novella, che fa parte del volume di novelle intitolato Vita dei campi, pubblicato nell’80, il Verga veniva chiarendo a se stesso la sua visione della vita, virile e pessimistica, tanto meglio individuata nella rappresentazione realistica di un ambiente elementare, privo di ogni passione frivola, nudamente e schiettamente umana, cui egli si accostava per complesse ragioni interiori (fra cui la profonda simpatia per la sua terra natale e un personale disgusto degli ambienti aristocratici, delle loro menzogne e delle loro passioni sofisticate e troppo individualistiche) e insieme in forza della sua adesione alla prospettiva del verismo (tanto efficacemente sostenuta dal suo amico Capuana), i cui canoni fondamentali dell’impersonalità, della narrazione oggettiva tanto bene rispondevano al suo maturato bisogno di superare il soggettivismo e l’autobiografismo di origine romantica che aveva pesato sulla sua produzione giovanile.

Cosí, ricercando un’arte sincera, schiva di ogni aspetto formalistico e di ogni effusione sentimentalistica, aderente alle cose e alla vita nella sua piú nuda realtà e portando la sua attenzione profonda e commossa (ma, ripeto, senza espansioni liricheggianti e troppo personali) a un mondo elementare, dolente e virilmente rassegnato, il Verga operava la profonda scoperta, essenziale nella nostra storia letteraria e civile, della dignità e dell’umanità di strati sociali miseri e oppressi dall’ingiustizia e dalla povertà, la scoperta del mondo delle plebi piú sfruttate e da secoli abbandonate, com’erano in particolare quelle della sua Sicilia, cui nessun vero vantaggio era venuto dalla stessa unificazione italiana, nella quale il giovane Verga aveva riposto tante speranze poi dimostratesi vane e illusorie e anzi tali da provocare in lui una delusione storica profonda e da rafforzare il suo pessimismo e fatalismo. Il Verga non si pone di fronte a questo mondo delle plebi con atteggiamento esortativo e con propositi rivoluzionari o riformistici espliciti (ché anzi egli andò sempre piú accentuando un atteggiamento politico conservatore), ma la sua grande arte realistica – quanto piú aliena da proposte sociali e politiche esplicite – illumina profondamente le condizioni vere di quelle plebi e cosí a suo modo collabora potentemente con la progressiva presa di coscienza italiana di una realtà cosí desolata e insieme cosí nobile nella sua estrema miseria, cosí piena di profonda umanità e schiettezza. E collabora a questa presa di coscienza con la sua potenza artistica assai meglio di quanto potessero fare certe opere esplicitamente umanitarie e magari socialisteggianti, ma rimaste a uno stadio tanto piú grezzo di rappresentazione e di documentazione, guastate dal sentimentalismo e da velleità di rivendicazioni incapaci di realizzazione artistica.

I personaggi del mondo rappresentato dal Verga non sono figure vagheggiate idillicamente e paternalisticamente da parte di scrittori bene intenzionati, ma poveri di profondità e di forza realistica: essi sono persone di cui il Verga rivendica (ripeto, senza esplicite intenzioni rinnovatrici, ma con un incontro potente di simpatia, di pietà, di potenza rappresentativa) la sincera umanità, la dignità nelle inaudite sofferenze provocate da un ordine ingiusto e crudele, il quale, nel desolato pessimismo verghiano, fa parte di tutto un destino umano, di un fato, la cui legge ferrea nei confronti dei viventi è la sofferenza. Perciò i personaggi dell’opera matura del Verga sono dei «vinti»: in parte lo erano già i personaggi di molti romanzi giovanili, ma in modi complicati e torbidi che facevano dipendere tale loro condizione dalle loro passioni malate e dalle loro vicende avventurose, mentre quelli delle nuove opere lo sono in forza di una condizione piú universale che si precisa, nei loro confronti, nella loro situazione di sfruttati e di oppressi da una società ingiusta e crudele. In questa loro situazione effettiva (sociale e umana) i miseri contadini e popolani siciliani del Verga vivono i loro drammi chiusi ed essenziali, le loro passioni primitive e tanto piú umane, i loro affetti e i loro odii elementari e genuini, la loro avidità e bisogno di «roba», il loro istintivo senso dell’onore, la loro religione della casa e della famiglia in cui consiste uno degli elementi maggiori della loro forza. Perché, a differenza del Manzoni dei Promessi sposi, che pur tanto aveva rinnovato la nostra letteratura con la sua attenzione alla vita degli «umili», i personaggi popolari del Verga – tanto piú sanguigni e realistici – non sono oggetto dei benefici disegni della manzoniana Provvidenza, ma vivono sotto un cielo tetro e plumbeo, senza divinità, e sono soggetti alla legge ferrea di un destino cui non possono sottrarsi e a cui si rassegnano aggrappati solo alla casa e alla famiglia, unico elemento relativamente positivo in un mondo cosí desolato e drammatico, da cui è escluso ogni «lieto fine», ogni soluzione rasserenante e idillica.

L’irruzione nella nostra letteratura di questi personaggi primitivi e umanissimi, delle loro povere storie dolenti, delle loro passioni schiette e reali, ha luogo nelle novelle del ricordato volume Vita dei campi, tutte ben significative per questa nuova rappresentazione di uomini semplici e veri, colti nella loro umanissima sofferenza quotidiana e nei loro sentimenti elementari e possenti e nel loro ambiente di desolata miseria, nel vivo scenario della Sicilia, privo di ogni compiacimento descrittivo, tutto denso e scabro con le sue squallide pianure paludose e malariche, con i suoi paesi poveri e con le sue miniere di zolfo aride e tenebrose. In quei personaggi primitivi e istintivi (pescatori, massari, garzoni di miniera) il Verga ritrova una potente umanità e la sua arte realistica ne coglie la psicologia individuale e i tratti piú comuni, generali, sicché da quelle narrazioni di situazioni diverse sale come un lamento corale, voce della sofferenza di tutto un mondo fatto di individui, ma accomunato da un’unica pena e da un’unica condanna fatale.

A volte il dramma esplode violento e quasi barbarico (ma mai interamente tale, ché sempre l’arte del Verga vi ritrova le note umane fondamentali), come nella celebre Cavalleria rusticana, con la rappresentazione della passione della gelosia e dell’onore; a volte, come nella Lupa, la passione torbida e dolorosa della sensualità viene seguita, con nuda potenza e profondità, nel suo sviluppo inesorabile e nella sua drammatica e sanguinosa conclusione, sullo sfondo di un paesaggio estivo, affocato e implacabile come la passione che vi campeggia; a volte, come in Jeli il pastore, il racconto si snoda lento e complesso intorno alla vicenda del povero protagonista per la sua fanciullezza sognante, le sue avventure di ingenuo e di perseguitato dalla sorte, il suo tragico amore per la donna che lo inganna e cosí lo induce al delitto; a volte, come nella bellissima novella di Rosso Malpelo, la narrazione organica e compatta punta sul risvegliarsi della coscienza umana del personaggio primitivo, un povero garzone di miniera, incattivito dalle beffe crudeli e dalla persecuzione del padrone e dei compagni di lavoro eppur rivelatosi generoso e coraggioso nel seguire la sua sorte che lo porta a morire disperso nella cava misteriosa e inesplorata.

Da questa rappresentazione varia e pur dominata da un generale tono di lamento che sale dalle cose stesse, dalle vicende stesse senza l’intervento esplicito di un commento da parte dello scrittore, il Verga trasse la spinta alla creazione di uno dei suoi due capolavori romanzeschi, I Malavoglia, del 1881.

Nei Malavoglia lo sguardo profondo e sicuro del grande scrittore domina, unifica, approfondisce il mondo piú vario e disperso di Vita dei campi, raccogliendolo in un unico ambiente preciso e concreto, il paesino di pescatori di Aci Trezza brulicante di personaggi fra popolari e piccolo-borghesi (fra i quali ultimi spiccano le figure quasi caricaturali del farmacista politicante e pettegolo, del segretario comunale avido e scaltro), e soprattutto centrando la sua attenzione oggettiva e pietosa (ma al solito la pietà nasce dalla rappresentazione realistica, non è sovrapposta a quella) su di un nucleo familiare di poveri pescatori, la famiglia dei Malavoglia.

La vicenda umile e tragica di questi «vinti» si individua e si intreccia nel suo rapporto con tutto il piccolo mondo paesano che li circonda con i suoi pettegolezzi, i suoi rancori, le sue malvagità, le sue sventure, il suo prepotente bisogno di resistenza ad una sorte comune di pena e di dolore e che cosí fa risaltare le umili, ma profonde virtú dei componenti della sventurata famiglia e insieme ne accorda le vicende con quelle di tutto un paese ugualmente soggetto alla legge di un destino implacabile.

La storia dei Malavoglia è per eccellenza umile e antieroica, antiromantica, e il suo riassunto è assai semplice, data la volontaria ricerca verghiana di una storia per nulla eccezionale, e anzi monotona, grigia, elementare. I Malavoglia avevano voluto migliorare la loro condizione economica poverissima con un commercio di lupini, acquistati mediante un prestito contratto con un vecchio usuraio del paese. Ma una tempesta travolge la loro barca, che porta l’amaro nome di Provvidenza, e insieme ad essa e al carico di lupini (tutte le loro risorse) il mare inghiotte anche il figlio di padron ’Ntoni, Bastianazzo. Cosí l’intera famiglia – la Longa, la nuora rimasta vedova, i nepoti ’Ntoni, Luca, Alessi, Mena, Lia – rimane sulle deboli spalle del vecchio capofamiglia, padron ’Ntoni, che disperatamente cercherà di far fronte all’impegno del prestito e di risollevare le sorti della famiglia, mentre invece su questa cadono inesorabilmente i colpi del destino: Luca morirà marinaio nella battaglia di Lissa, la Longa sarà portata via dal colera, Mena dovrà rinunciare (per mancanza di dote e per tenace attaccamento alla sua disperata famiglia) alle nozze con il suo innamorato Alfio, Lia fuggirà in città e finirà prostituta, il giovane ’Ntoni, insofferente di tanta miseria, si farà implicare in un traffico di contrabbandieri e finirà in prigione, il vecchio padron ’Ntoni ammalato morirà all’ospedale, mentre la casa del Nespolo, centro e rifugio dei loro affetti, dovrà venir venduta. Solo nel finale del romanzo Alessi potrà salvarsi dalla catastrofe, riscattando la casa del Nespolo, ma a questa salvezza malinconica e solitaria il motivo profondo del pessimismo verghiano si configurerà ancora – con le pagine piú poetiche di tutto il romanzo – nella sorte del giovane ’Ntoni che, dopo un breve ritorno al paese, ne riparte per sempre seguendo rassegnato e vinto il suo destino di randagio e di reietto.

Nella rappresentazione oggettiva e realistica di questo mondo e di questa famiglia il Verga sviluppa una potente poesia corale in cui confluiscono le voci e gli atti di tutti i personaggi accomunati dalla loro condizione di vinti da un destino inesorabile e duro, ma di vinti che vivono il loro amaro calvario con diverse gradazioni di forza e di sentimento a seconda che essi piú saldamente si attaccano al valore e al culto della casa e della famiglia o se ne distaccano in vani tentativi di evasione dalla loro situazione. Da una parte (a schematizzare una gradazione assai complessa nei suoi poli piú divaricati) campeggia la figura del vecchio padron ’Ntoni, con la sua dolente saggezza, con il suo tenace attaccamento alla famiglia e alla casa, con la sua ingenua e profonda onestà che non gli permetterà di accettare i consigli abili e spregiudicati del legale a proposito del prestito dei lupini da cui deriva la rovina economica dei Malavoglia. Dall’altra si stacca la figura del nepote ’Ntoni, inquieta e insofferente di tanta miseria, ma appunto perciò tanto piú battuta e vinta, proprio perché l’unica possibilità di salvezza per questi miseri restano comunque la rassegnazione, l’attaccamento alla casa, quella solidarietà con gli altri componenti della famiglia che impedirà cosí a Mena di accettare l’offerta di matrimonio di Alfio.

Proprio la malinconica vicenda di Mena, il suo rifiuto di una vita e di un amore per rimanere con i suoi e sfiorire rassegnata con loro, ben indica come la potente poesia corale dei Malavoglia nella sua apparente monotonia vibri pure – sotto il grigiore e quella specie di elegia epica di tutto il romanzo – di toni coerenti, ma anche vari, come è appunto quello pacato e struggente di un amore semplice e casto e del suo abbandono dolente da parte della giovane donna con il suo oscuro e umile eroismo, con il suo sacrificio alla religione della casa e della famiglia.

Per questa rappresentazione narrativa, che assume i caratteri di una epopea triste e umile, di una coralità profonda e costante, la grande arte del Verga realizza una poetica che riprende i principi fondamentali del verismo (specie quello dell’impersonalità, per cui il romanzo sembra farsi da sé, maturare come un fatto naturale in cui l’autore si immedesima e scompare) e li alimenta (superandone i rischi di certa rigidezza naturalistica) con la sua pessimistica visione della vita, con la poesia di un’adesione pudica e profonda ai sentimenti e agli atteggiamenti dei personaggi, senza mai sovrapporsi ad essi con impennate liriche o con commenti personali. E cosí coerentemente il Verga adopera eccellentemente nel romanzo il suo stile antiletterario e antiornamentale, uno stile e una prosa che mirano a non falsare le cose e i sentimenti dei suoi personaggi, ma anzi ad assecondarne la spontaneità e la naturalezza e riprendono cosí – risolvendoli in un ritmo e in una cadenza che si fanno poetici quanto piú sobrii e disadorni essi appaiono – i modi del parlare dell’umile gente rappresentata con le sue sentenze e i suoi proverbi, pregni di una saggezza popolare e secolare, con le sue peculiarità dialettali sciolte in una lingua volutamente disadorna e pur poetica per la densità e il riflesso della vita e delle cose che in essa si esprimono con eccezionale spontaneità, una lingua che rinnova profondamente la stessa sintassi tradizionale ora dal Verga spezzata e ricostruita in quei modi di parlato indiretto libero che appunto assecondano e poeticamente riprendono i modi stessi di una narrazione popolare e siciliana pur evitandone una fredda ed esterna imitazione e riproduzione fotografica.

I Malavoglia sono un capolavoro assoluto e pure non esauriscono tutte le risorse e le possibilità della grande personalità artistica del Verga, che infatti seguiterà a svolgersi e a realizzarsi in altre opere e in quell’altro capolavoro che è Mastro Don Gesualdo.

Subito dopo i Malavoglia si ha un ritorno ai romanzi di tipo mondano e passionale nel romanzo Il marito di Elena (1882). E nel 1883 escono le Novelle rusticane, che riprendono i temi e i toni elaborati fra Vita dei campi e i Malavoglia, puntando però ancor piú direttamente sul dramma della miseria e delle plebi siciliane e sul cupo bisogno della «roba», con cui i personaggi cercano di uscire dalla loro povertà, di rompere i limiti imposti loro da quella ingiusta struttura sociale, che può ispirare la ribellione sanguinosa e l’esplosione di selvaggia violenza di un intero paese di braccianti, come è il caso allucinante della novella La libertà (ben significativo per la potente comprensione verghiana della ingiustizia sociale e delle sue ragioni strutturali, per la sua delusione storica nel rinnovamento effettivo del Risorgimento, per il suo pessimismo fatalistico) in cui la ribellione sociale è soffocata prontamente e spietatamente dagli stessi garibaldini portatori di un nuovo ordine politico, che non vorrà cambiare nulla dell’ingiusto ordine sociale. Mentre nelle altre novelle o il dramma fatale della miseria è solo rappresentato nudamente e potentemente (come in Malaria) o il bisogno della «roba» è configurato come una cupa passione tormentosa e distruttiva, come un nuovo strumento di pena fatale, come esemplarmente avviene nella novella di Mazzarò, in cui il protagonista, identificando se stesso e la propria vita con la «roba» che ha potuto accumulare, tenterà di distruggere la sua «roba» quando avvertirà l’approssimarsi della propria morte.

Cosí il pessimismo verghiano si approfondisce riducendo il valore della religione della famiglia e della casa, che aveva avuto tanto sviluppo nei Malavoglia, rivelandone l’estrema difficoltà fuori del mondo piú elementare dei diseredati del romanzo: quei diseredati a cui l’attenzione del Verga ancora direttamente si rivolge meno felicemente nell’altra raccolta di novelle dell’83, Per le vie, in cui, ritraendo non il congeniale e piú amato ambiente siciliano, ma quello del proletariato milanese, egli corse piú chiaramente il pericolo di una rappresentazione oggettiva piú documentaristica e fredda, piú esterna e meno poeticamente valida.

All’ambiente siciliano il Verga ritornò con il nuovo capolavoro di Mastro Don Gesualdo (1888), che costituisce il secondo romanzo di quel grandioso ciclo dei Vinti cui il Verga aveva pensato circa dieci anni prima in un programma di analisi e rappresentazione di vari ambienti sociali (dal piú umile al piú alto), tutti dominati dal destino e accomunati dalla sconfitta dei vari personaggi, ciclo che non verrà, come vedremo, mai compiuto.

Nel nuovo romanzo la scena si allarga e si popola di personaggi di diversa condizione sociale, cosí come non vi mancano elementi di storia (sempre sul punto dolente della fine del dominio borbonico in Sicilia e della nuova condizione unitaria che tanto poco incide sulla desolata situazione sociale siciliana e sui rapporti fra i possidenti e le plebi). E la costruzione, vasta e diversa da quella piú chiaramente corale dei Malavoglia, trova il suo maggior punto di forza nella narrazione della vicenda del protagonista che, animato da una eccezionale tenacia laboriosa, da quell’amore per la «roba» che si era tanto crudamente affermato nelle Novelle rusticane, si stacca dalla miseria dei diseredati e si costruisce una forte posizione economica cercando insieme di costituirsi una posizione socialmente elevata e riconosciuta mediante il matrimonio con Bianca, discendente dalla famiglia aristocratica dei Trao, una volta potente e ora (sostituito il privilegio del sangue da quello della ricchezza, nel passaggio dal dominio dell’aristocrazia di origine feudale a quello della borghesia o di un’aristocrazia borghesizzata) decaduta e minata da una sorta di malinconica e stravolta follia. La passione della «roba» e dell’affermazione sociale diverranno a un certo punto causa di tormenti e di pena per il protagonista che ha voluto distaccarsi dal suo ceto sociale e che si trova deluso e vinto da un accanito destino crudele, portatore di amare sconfitte, di cocenti delusioni e umiliazioni.

Cosí la figlia non ricambierà il suo amore, la sua salute verrà minata dal cancro ed egli finirà tragicamente e cupamente la sua vita nel palazzo nobiliare del genero, a Palermo, abbandonato, fra medici boriosi e insipienti, fra servitori grossolani e crudeli nei confronti di questo villano rifatto, di questo falso signore, solo di fronte alla morte, roso dalla delusione e dall’amarezza della dilapidazione del suo patrimonio ad opera della figlia e del genero, che ugualmente lo disprezzano e lo sentono estraneo al loro diversissimo mondo.

Diversamente dai Malavoglia, il Mastro Don Gesualdo ha indubbi squilibri e minore unità di tono e di poesia, ma insieme corrisponde a una volontà e ispirazione artistica piú complessa e difficile che si traduce nella formidabile costruzione drammatica della figura del protagonista, nella varietà di toni ora profondamente nostalgici e sobriamente idillici (le grandi pagine del rustico idillio amoroso di Gesualdo con la serva umile e fedele, Diodata), ora acremente sarcastici nella descrizione del mondo dissoluto e decaduto dei Trao, ancora ridicolmente e follemente attaccati ai loro inutili privilegi feudali, o di quello ferocemente egoistico di altri nobili che hanno saputo accettare la nuova legge della ricchezza e pur si ritrovano battuti e vinti dalla malattia e dalla morte (la vicenda della baronessa Rubiera, anch’essa costruttrice e vittima della «roba»), ora epicamente grandiosi nella narrazione della lotta e del lavoro disumano con cui Gesualdo accumula la sua ricchezza, ora tragicamente desolati come nelle altissime pagine del romanzo, quando la morte si avvicina a Gesualdo e lo colpisce e annienta con la malattia crudele e con lo squallido abbandono a se stesso.

Proprio queste ultime pagine segnano la massima punta della visione pessimistica verghiana e della sua arte realistica e tragica.

Dopo la grande prova del Mastro Don Gesualdo l’ispirazione del Verga va lentamente declinando anche se ancora capace, specie nel teatro, di dar vita ad opere pur interessanti e notevoli. Mentre non riusciva a portare avanti il grande ciclo dei Vinti con il suo ambizioso proposito di risalire gradatamente nella rappresentazione realistica di varie condizioni sociali (dopo I Malavoglia e Mastro Don Gesualdo, il Verga pensava a La Duchessa di Leyra, cui lavorò per poi abbandonarne l’esecuzione, a L’onorevole Scipioni e L’uomo di lusso, mai neppure iniziati), il Verga proseguí la sua attività narrativa in Vagabondaggio (1887), nei Ricordi del capitano d’Arce (1891), che narra, con una specie di vagheggiamento nostalgico e ironico, vicende amorose e mondane, in Don Candeloro e C. (1894), serie di finissimi bozzetti della vita provinciale e delle sue pretese e miserie, fra cui si svolgono le avventure di una compagnia di attori e girovaghi, in Dal tuo al mio (1905), documento di una volontà piú esplicita di rappresentazione dei conflitti di classe, ma da un punto di vista sostanzialmente conservatore.

Dal tuo al mio era una trasposizione in forma narrativa del dramma omonimo del 1903, parte di quella notevolissima attività teatrale cui il Verga si dedicò in questi anni piú tardi rafforzando con essa la nascita del teatro verista e creando opere di indubbia validità e, ripeto, esemplari per la nuova tecnica teatrale del verismo.

Sia che egli riducesse a sceneggiatura alcune sue novelle, sia che egli componesse direttamente per il teatro, il Verga ben dimostra come la sua tecnica, scabra e antiornamentale, realistica e drammatica, fosse ben capace di un rinnovamento del teatro rispetto alle sue forme romantiche. Ne sono prova efficace opere come La lupa e Cavalleria rusticana (riduzione sceneggiata delle omonime novelle e la seconda testo musicato dal Mascagni in un’opera tanto importante nel verismo musicale), o i felici bozzetti scenici Caccia al lupo e Caccia alla volpe, o, ancora meglio, il dramma In portineria in cui un idillio doloroso (l’amore non corrisposto dell’umile e malata Maria per l’amante della sorella) si cela ed erompe, nella sua drammaticità, attraverso le vicende minute e banali di una realtà dura e ostile.

Anche nel teatro il Verga portava la sua visione pessimistico-realistica della vita, la sua attenzione originale alle condizioni sociali, la sua arte che rompeva definitivamente con la tradizione romantica e classicistica e apriva, con forza eccezionale, le vie del realismo moderno.

6. Altri narratori veristi

Vastissima è la produzione narrativa veristica, che nel suo interesse per la realtà si volge a rappresentare, piú che individui isolati e i loro particolari problemi, intere zone ambientali, sociali, situazioni umane entro le condizioni particolari di paesi e regioni italiane, sicché quella narrativa fu anche documento di una tendenza generale dell’epoca postrisorgimentale a verificare le situazioni delle singole regioni e i loro complicati e difficili problemi, specie in quegli strati popolari che piú riflettevano nella loro miseria le difficoltà di progresso e di elevazione della nuova società italiana.

Cosí quasi ogni regione italiana (e specie quelle del meridione depresso da un secolare abbandono e soggetto al nuovo sfruttamento da parte del Nord piú evoluto e industrializzato) ebbe i suoi narratori. Narratori di diversa capacità artistica e di diversa acutezza nel cogliere e rappresentare la realtà, e troppo spesso portati a svolgere e smussare la loro materia in una rappresentazione bozzettistica e folkloristica e patetica, priva di vero mordente critico e della drammatica profondità del «sunt lacrimae rerum», della forza nuda e terribile della rappresentazione oggettiva di una realtà misera e dolente.

Potranno ricordarsi almeno, in questa prospettiva veristica regionalistica, il calabrese Nicola Misasi, l’abruzzese Domenico Ciampoli, il napoletano Federico Verdinois e, su un piano piú alto, la napoletana Matilde Serao (1856-1927), attiva giornalista e autrice di numerosissimi romanzi e racconti che, se nella fase piú tarda della sua produzione sono viziati dall’accettazione di forme di psicologismo e di decadentismo a lei congeniali, presentano, nella loro ispirazione piú autentica, una felicissima versione del verismo nella rappresentazione calda e minuta, acuta e cordiale, della vita e degli ambienti popolari o piccolo-borghesi di Napoli (o di Roma, dove la Serao visse a lungo): come nel Ventre di Napoli, nel Paese di cuccagna, o in novelle come La virtú di Checchina, vero e proprio piccolo capolavoro di rappresentazione realistica, fra simpatia e ironia, delle modeste e frustrate vicende di una signora piccolo-borghese, presa fra il desiderio di un’avventura extraconiugale e la sua dubbia virtú fatta di timidezza e di remore piú convenzionali che morali.

Anche in Toscana è dato annoverare un notevole numero di narratori che si ispirano alla poetica del verismo, con un grado di efficienza e forza che svaria fra il gusto piú apertamente bozzettistico e macchiettistico del pisano Renato Fucini (1843-1932), famoso per i suoi sonetti in vernacolo e per alcune raccolte di novelle (Le veglie di Neri, All’aria aperta), e la tanto maggiore ispirazione realistica e poetica di Mario Pratesi (Santa Fiora sul Monte Amiata, 1842-1921), cui si devono molte opere notevoli, ma soprattutto due romanzi, L’eredità (1889) e Il mondo di Dolcetta (1894), che (dopo l’incantevole e piú gracile prova giovanile delle Memorie di Tristano) rappresentano la maturità di questo scrittore robusto e delicato, preso fra una delusione pessimistica (che dalla crisi del Risorgimento si svolge in un senso cupo e fatale dell’esistenza) e una forte tendenza morale, colorata da istanze sociali, che insieme collaborano alla creazione di un mondo narrativo di intensa serietà, piú compatto nel primo romanzo, piú complicato e sfaldato, ma anche piú ricco e vibrante, nel secondo, dove è portato sino in fondo il motivo pratesiano del contrasto fra personaggi campagnoli, umili e onesti, e il mondo cittadino e borghese falso, corrotto e capace di corrompere la stessa nativa purezza dei popolani.

Se il Pratesi è scrittore di gran lunga superiore agli altri veristi toscani e non toscani, ancora maggiore è lo spicco che nel panorama della narrativa veristica hanno la personalità e l’opera di Federico De Roberto (nato a Napoli nel 1866, ma di famiglia siciliana e vissuto in Sicilia, a Catania, fino alla morte avvenuta nel 1927), la cui importanza e originalità è stata giustamente tanto rilevata nella critica piú recente.

Personalità severa, dotata di forti capacità intellettuali, nutrita di serie esperienze culturali e letterarie, il De Roberto si espresse in una vasta produzione di romanzi e novelle che riflettono una visione sempre piú tetra e amara della vita e della storia, convalidata (come in tanti scrittori della sua epoca, ma con una forza maggiore di risentimento acre e sarcastico) dal grande motivo della delusione degli ideali risorgimentali nella realtà dell’Italia unita dominata dall’affarismo, dall’egoismo individualistico, da una condotta della classe dirigente politica impari ai grandi problemi della nuova nazione. Da ciò nasce un sostanziale scetticismo e alla fine un’involuzione che condurrà il De Roberto al nazionalismo e al conservatorismo non tanto per una nativa inclinazione, quanto come riflesso di una delusione storica. E questa si estende in una delusione piú vasta che investe le possibilità stesse degli uomini, rivelati nella loro sostanza piú cupa di fragili figure patetiche e indifese o di cinici utilitaristi, chiusi al problema degli altri, avidi di potenza e di mantenimento o accrescimento dei loro privilegi ereditari, cosí come essi si portano nel sangue (secondo la legge positivistica dell’ereditarietà) gli istinti, le cupe passioni, le stravolte manie dei loro antenati. E lo scrittore ha il compito di narrare con obbiettività (secondo la legge della impersonalità comune al verismo) queste vicende di famiglie e ambienti. Ed è ciò che il De Roberto realizza – dopo prime prove piú incerte e un primo romanzo, L’illusione (1891), in cui piú forte è l’impegno di senso psicologico nel personaggio della protagonista – soprattutto nel suo capolavoro, il lungo e poderoso romanzo I viceré (1894), che narra la storia di una principesca famiglia siciliana di origine spagnola nella sua decadenza e nella sua resistenza entro il quadro grandioso e cupo della storia siciliana tra il crollo del regime borbonico e la nuova situazione creata dall’annessione della Sicilia al Regno d’Italia. I membri della famiglia, gli Uzèda, sono potentemente rappresentati e seguiti con occhi lucidi e spietati nelle loro vicende, nelle loro follie, nel loro tetro e complesso istinto di conservazione e di distruzione, finché l’ultimo e giovane discendente, Consalvo, capirà che, malgrado tutto, nulla è veramente cambiato e che la potenza, una volta affidata ai privilegi feudali e aristocratici, può essere mantenuta non opponendosi caparbiamente alla nuova situazione, ma sfruttandone con cinica spregiudicatezza gli stessi nuovi istituti parlamentari e democratici, imponendo l’antica supremazia attraverso la carriera politica secondo l’eterna legge dell’utile e del cinismo.

Questa conclusione pessimistica e scettica circa l’immutabilità della storia anche nei suoi piú vistosi cambiamenti, circa l’adattabilità degli antichi potenti a nuove situazioni in cui essi rimangono ugualmente privilegiati e potenti, troverà poi svolgimento nel piú tardo e incompiuto romanzo, L’imperio, che narra appunto la lotta spregiudicata con cui Consalvo Uzèda si afferma come deputato e poi come ministro nel mondo parlamentare romano, descritto, con tinte di feroce e distaccato sarcasmo e con una ulteriore carica di pessimismo, nella sua meschinità e mancanza di ideali.

Ma il capolavoro rimane I viceré, in cui De Roberto impiega un’arte narrativa vigorosa e una capacità autentica di costruzione, serrata e saldissima, in cui si aprono con singolare efficacia (ma mai come digressioni a sé stanti) affreschi grandiosi e possenti, indimenticabili (quello dei funerali della principessa madre, o quello dell’epidemia di colera, o quello della vita del sontuoso convento in cui viene educato Consalvo) e si staccano (ma mai in un rilievo slegato dalla loro funzione nello svolgersi di tutto il romanzo) personaggi ora lividi e chiusi, ora smaniosi e sanguigni, ora fragili e deboli, ma tutti coinvolti nello sviluppo di questo mondo ambientale stravolto e altero, minato da una follia di decadenza in cui persistono e si esasperano i caratteri di una razza superba e sopraffattrice. Certo De Roberto non ha la forza poetica di un Verga, ma il suo realismo, cupo e sarcastico, è pur ben diverso da quella impoeticità rigida, pesante, schematica che gli fu troppo a lungo rimproverata. Né potrebbe dimenticarsi, al di là del grandioso effetto dei Viceré, la profonda impressione che suscitano, fra tante altre sue novelle, il breve racconto La paura, edito nel 1923, che si incentra nel sentimento istintivo della paura di un soldato di fronte al pericolo imminente, sentimento invano celato da tanti scrittori di guerra sotto la retorica dell’eroismo e invece cosí potentemente obbiettivato e rivelato dal De Roberto, che pur della prima guerra mondiale e dell’intervento italiano fu sostenitore e propagandista, o il racconto Il rosario, ridotto poi in forma teatrale, in cui l’implacabile rancore di una vecchia signora autoritaria e bigotta contro una figlia maritatasi senza il suo consenso soffoca lo strazio della figlia ripudiata, cui muore il marito, e la pietà delle altre figlie, sotto la continuazione ossessiva della recita del rosario.

Al verismo si ricollega anche l’iniziale impegno narrativo della scrittrice sarda Grazia Deledda (Nuoro, 1871-1936), il cui valore, a un certo punto troppo esaltato (nel 1927 ebbe il premio Nobel) e persino paragonato a quello dei grandi narratori russi, va ridimensionato nel riconoscimento di un’arte indubbiamente ispirata e genuina, ma troppo povera di appoggi culturali capaci di sorreggerla al di là di una schiettezza piuttosto elementare e di una disposizione nativa all’analisi psicologica sfumata e attenta, ma che non giunge ad una vera profondità, esitando fra l’attrazione per stati d’animo tormentosi e anche torbidi e una fedeltà a sicure norme morali sempre piú progressivamente pesanti a scapito di un’iniziale maggiore carica di fermenti ribelli e irrequieti. La lezione del verismo, che portava la scrittrice a trattare soprattutto la materia di vicende e di sentimenti, di paesaggi della sua terra, la Sardegna, rimane certo fondamentale nella formazione della Deledda, anche se quella lezione presto si complica positivamente con un sentimento magico e suggestivo dei miti e delle leggende di una società, come quella sarda, arcaica e lontana dalla civiltà piú avanzata, e con quel gusto di indagine psicologica di animi primitivi, ma insieme ribollenti di fermenti inquieti.

Nascono cosí i suoi romanzi piú convincenti (come Elias Portulu, Canne al vento, Marianna Sirca), in cui paesaggio e stati d’animo si corrispondono nella loro fusione di realtà e di magia, nell’incontro spesso tormentoso fra ribellione anticonvenzionale e superiore pace morale e naturale. Ma poi questa maggiore forza narrativa e poetica cede lentamente a un certo progressivo imborghesimento moralistico che, nella sua produzione vastissima e forse troppo prolungata al di là dei limiti della sua ispirazione, attutisce e smorza sia gli spunti piú vivaci del suo realismo, sia quelli del suo lirismo e del suo scavo psicologico piú irrequieto e non privo di qualche consonanza con i fermenti del decadentismo.

7. Il verismo e la poesia: la poesia dialettale

Le esigenze realistiche e veristiche (le cui forme espressive piú congeniali sono la narrativa e il romanzo) sollecitano piú sporadici e deboli tentativi anche nella poesia in lingua nazionale: il caso soprattutto del veronese Vittorio Betteloni (1840-1910), cantore, in modi volutamente sciatti e quasi prosastici, di umili amori giovanili e di tranquilli affetti familiari; o quello, tanto clamoroso quanto velleitario, del bolognese Olindo Guerrini (1845-1916), che con lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti si rese celebre per le sue poesie anticlericali e spesso pornografiche; o quello di un allievo del Carducci, il romagnolo Severino Ferrari (1856-1905), che immise un gusto saporoso e gentile della realtà in liriche per altro raffinate e coltissime.

Ma piú efficacemente le esigenze del verismo operarono sulla poesia dialettale, che trova nuovo alimento nella generale attenzione veristica alle particolarità regionali di ambiente, di costume, di lingua, alla vita popolare delle diverse regioni. Già accennammo ai sonetti in vernacolo pisano del Fucini e cosí potremmo ora ricordare vari altri poeti dialettali. Ma piú che dar qui un elenco di nomi, significativi solo se rianimati in una motivazione della loro per lo piú tenue poesia, sarà opportuno puntare solo sui due maggiori poeti di questa tendenza dialettale: Pascarella e Di Giacomo.

Il romano Cesare Pascarella (1858-1940) cominciò la sua lunga attività poetica con poesie bozzettistiche e macchiettistiche chiaramente ispirate alle esigenze del verismo, dimostrando fino dagli inizi una singolare capacità di rappresentazione ferma ed evidente, aliena dagli interventi sentimentali e riflessivi dell’autore (e dunque ben collegata al canone veristico dell’impersonalità), per poi raggiungere il culmine della sua poesia quando dall’interno di quella sicura e realistica rappresentazione il poeta riuscí a fare scaturire la sua partecipazione umana, dolorosa e polemica, la sua profonda simpatia per le vicende e le gesta umili, ma vigorose e drammatiche dei popolani romani sullo sfondo squallido e possente dei quartieri popolari romani o della desolata campagna laziale.

Nascono cosí componimenti esemplari per la forza e per l’intima drammaticità della rappresentazione di scorci di vita, di avvenimenti che raggiungono – attraverso il parlato dei popolani – una specie di luce e di voce epica, autentica e piena (Er morto de campagna, Er fattaccio, La serenata a Roma).

Questa sorta di epopea del popolo romano moderno e reale trova poi un eccezionale risultato in quel poemetto in forma di sonetti che è la Scoperta dell’America (1893), scoperta narrata da un popolano ad altri popolani in modi schietti ed elementari, tra favolosi e realistici, fra entusiastici e caricaturali, che ben esprimono lo stesso mondo interiore del poeta, pessimistico ed entusiastico insieme, attraverso l’oggettivazione della mentalità popolare con la sua mescolanza genuina di grandioso e di comico, di satirico e di commosso. Piú dubbio invece appare il risultato della serie di sonetti di Villa Gloria o dell’incompiuta Storia nostra, che, pur con parti eccellenti per evidenza drammatica e per profondo umorismo, risentono negativamente di una intenzione celebrativa troppo scoperta e introducono nell’epica schietta del mondo popolare romano una certa eccessiva volontà di grandiosità che scade spesso in eloquenza retorica e in forme di bravura artistica meno sorrette dall’impeto vigoroso e dalla potenza sobria e realistica dei componimenti piú genuini e ispirati.

L’altro vero poeta dialettale dell’epoca è il napoletano Salvatore Di Giacomo (1860-1934), che (cfr. paragrafo seguente) fu anche narratore e commediografo. Proprio nella narrativa, cosí strettamente legata alla lezione fondamentale del verismo, ma arricchita (e a volte diluita in forme troppo sentimentali) da una personalissima riserva di lirismo e di fantasia, di sentimento commosso, viene formandosi il mondo poetico del Di Giacomo, tutto rivolto alle vicende e agli affetti dell’ambiente popolare napoletano, con i poveri luoghi (vicoli, cortili, ospizi, prigioni) in cui si svolge la sua vita fatta di sofferenze, di passioni, di delitti, di disperata volontà vitale, e insieme di disposizione genuina al godimento dei pochi piaceri puri che offre: la luce solare, il colore azzurro del mare, l’aria dolce di primavera, il candore della luna nella notte, il profumo dei fiori della sua terra incantevole. A volte, come accennavo, la sua poesia corre il pericolo di un troppo tenero sentimentalismo, di una musicalità quasi estenuata, di un compiacimento della propria incantevole ingenuità. Ma nei componimenti piú ispirati e genuini tutti quei pericoli sono superati e vive valida, e a suo modo perfetta, una lirica di rara purezza e di rara densità realistica. Ché questo è il segreto della poesia del Di Giacomo: il sentimento e la fantasia nascono dalle cose cantate, la sensibilità risponde freschissima e pronta agli oggetti rappresentati, il canto e la musica hanno la genuinità vibrante del canto popolare, e l’arte non illustra dall’esterno, ma traduce, con eccezionale spontaneità, le vicende, gli affetti del mondo popolare che il Di Giacomo ama e sente come suo, e di cui sa mirabilmente cogliere e sviluppare, anche mediante l’uso di metri brevi, snelli, celeri, il palpito di vita e di passione, la disposizione naturale all’incanto poetico, ad una specie di estasi, fra malinconica e lieta, di fronte agli spettacoli freschi della natura e al sorgere e svolgersi del sentimento amoroso.

8. Il teatro verista e la critica del «metodo storico»

La tendenza alla rappresentazione della realtà e della società contemporanea trova espressione, oltre che nella narrativa, nel teatro, che viene rompendo, in vari modi e con varia consistenza di approfondimento ideologico e artistico, con la tradizione aulica della tragedia e variamente assorbe e riflette procedimenti e istanze della poetica veristica.

A volte ciò avviene entro forme che ancora si collegano alla tragedia storica (e magari alla scelta dei versi contro l’uso sempre piú prevalente della prosa e del parlato comune): come è il caso del romano Pietro Cossa (1830-1881), che ebbe grande successo popolare con i suoi drammi storici (Nerone, Messalina, Giuliano l’Apostata ecc.) in cui la storia illustre veniva privata del suo retorico alone di grandiosità e rappresentata nella sua piú minuta e cronachistica realtà, nella sua verità di sentimenti comuni e di vita quotidiana.

Piú direttamente connesso ai problemi e alla rappresentazione della realtà contemporanea, seppure lontano da un autentico impegno veristico, si svolge il dramma di tipo borghese (già da tempo attivo in altre letterature europee e specialmente in quella francese), ora indirizzato a sostenere «tesi» ben adeguate al gusto mediocre e alle idealità convenzionali della borghesia di secondo Ottocento (è il caso del troppo fortunato teatro del modenese Paolo Ferrari – 1822-1889 – abile costruttore di modesti drammi e commedie di costume e carattere attenti alla società contemporanea o tesi a recuperare gli aspetti piú bonariamente realistici del grande Goldoni, fatto protagonista della sua piú felice commedia: Goldoni e le sue sedici commedie nuove; o quello del napoletano Achille Torelli, 1841-1922, cui si deve una commedia, I mariti, piena di felice evidenza e di garbata finezza psicologica), ora piú acutamente volto a rappresentare le pene e le difficoltà di un ambiente piccolo-borghese, con le sue tentazioni, le sue ambizioni, le sue sane virtú, come è il caso soprattutto di una commedia dialettale, Le miserie di monssú Travet del piemontese Vittorio Bersezio (1828-1900), piccolo capolavoro di rappresentazione, fra arguzia e simpatia, di un ambiente familiare del tempo, messo in pericolo dalle pretese e velleità della giovane moglie e riequilibrato dalla rettitudine modesta e incrollabile del marito, un povero impiegatuccio (e il suo nome, Travet, divenne appunto sinonimo di questa categoria sociale) che preferisce la miseria al disonore in cui sta per farlo cadere l’avventata azione della moglie.

Ma il vero e proprio teatro verista deve le sue origini ai drammi, già a suo tempo ricordati, del Verga, di fronte ai quali e alla loro severa e tragica forza di verità e di poesia sarebbe facile rilevare la maggior debolezza della produzione teatrale ispirata al verismo. Sarebbe però ingenuo ed errato esporre tale produzione a un simile arduo paragone e perder di vista i contributi di rinnovamento e di sviluppo di un nuovo teatro italiano moderno che provengono da diversi scrittori di questa corrente nella sua fondamentale spinta al reale e nelle sue varie e nuove componenti spesso appoggiate ad un nuovo affiatamento del teatro italiano con le correnti e i procedimenti teatrali della letteratura europea.

Entro questo sviluppo nuovo del teatro italiano, sulla sollecitazione fondamentale del verismo, si inscrivono, fra i molti autori teatrali, alcuni scrittori piú originali o rappresentativi. Saranno cosí da ricordare Salvatore Di Giacomo, che alla sua preminente produzione lirica aggiunse una cospicua produzione teatrale in dialetto, che rappresenta con un lievito intenso di malinconia e di commossa pietà il povero mondo popolare napoletano con le sue oscure tragedie e la sua sconsolata miseria (O’ mese mariano, O’ voto, A San Francisco, Assunta Spina), o il milanese Carlo Bertolazzi (1870-1916) i cui drammi (fra i quali soprattutto La gibigianna) rispecchiano, con coraggiosa volontà di verità anche se con una certa secchezza artistica, i problemi della società settentrionale di secondo Ottocento nei riflessi negativi che il suo sviluppo economico e la sua progressiva industrializzazione hanno sulla plebe proletaria e sulla sua squallida e tormentosa vita quotidiana: problemi e contrasti che trovano pure una loro espressione, almeno documentariamente efficace, nei drammi del bresciano Girolamo Rovetta (1851-1910), autore anche di numerosi romanzi, piuttosto grezzi e macchinosi, ma interessanti per la rappresentazione della società borghese italiana del tempo.

Ancora piú significativi nella storia del teatro di secondo Ottocento risultano poi Giacinto Gallina, Giuseppe Giacosa, Marco Praga.

Giacinto Gallina, veneziano (1852-1897), giunse lentamente ai suoi risultati piú felici e consistenti, svolgendo e rafforzando con una crescente sicurezza realistica il suo piccolo, ma schietto nucleo poetico, contraddistinto da una gentile, malinconica, bonaria visione della vita che non tocca mai intensità tragiche e vibra di un patetico sentimento di autentica simpatia per le virtú del ceto popolare e piccolo borghese, alle cui timidezze e ai cui compromessi l’autore pur non risparmia – con una certa consonanza con l’amatissimo Goldoni – i rilievi di una discreta ironia e satira.

Al centro della sua attenzione è, come dicevamo, il mondo familiare e ambientale del popolo e della piccola borghesia quale egli la conosceva nell’ambito della società veneziana del suo tempo e quale intendeva ritrarla servendosi anche dello strumento espressivo del dialetto. In questo mondo egli opera il suo impegno di rappresentazione realistica fedele e attenta: prima (fra ’70 e ’80) con commedie piú cariche di patetismo e di un blando pedagogismo e piú letterariamente aggraziate (El moroso de la nona, Teleri veci, I oci del cor, Zente refada); poi – dopo un decennio di silenzio – con le sue commedie piú mature e sicure: Serenissimo, La base de tuto, Fora del mondo, La famegia del santolo (1892), che è indubbiamente il suo capolavoro, la commedia in cui meglio si fondono e si commisurano le sue qualità di tenue malinconia, di dolce sentimentalità, di umorismo e di satira, di veristica fedeltà alla realtà rappresentata.

Se il teatro del Gallina gode di una felice continuità di ispirazione (pur nella maturazione fra le prime e le ultime commedie) e di un’armonica compattezza di indirizzi e di realizzazione, esso tuttavia conserva qualcosa di piú gracile e di piú chiuso, di piú lontano dalle esperienze europee e dalle sperimentazioni teatrali che sono invece cosí presenti nel lungo e complicato itinerario teatrale del Giacosa, il quale perciò piú efficacemente (pur se con forti confusioni e cadute) agisce nello sviluppo del teatro italiano.

Giuseppe Giacosa (Colletto Parrella, presso Torino, 1847-1906; vissuto fra Torino e Milano) era partito infatti da una prospettiva tardo-romantica, fra sentimentalmente languida e oleografica, tesa a ricreare un’atmosfera storica, soprattutto medievale, molto di maniera, e a svolgere in essa leziose e patetiche vicende amorose come quella di Una partita a scacchi (1873), tanto fortunata e prediletta dal pubblico quanto realmente falsa e convenzionale. Ma presto lo scrittore, sensibilissimo al mutare dei gusti e fortemente attento alle nuove correnti letterarie italiane e straniere, venne superando questa prima fase, prima cercando, con propositi piú ambiziosi, una piú forte animazione del mondo storico del passato con la costruzione di personaggi di piú complicata psicologia (il caso di Il conte rosso o di La signora di Challant), poi avvicinandosi al verismo italiano e al naturalismo francese e prendendo a rappresentare in teatro la realtà della società borghese contemporanea, mentre svolgeva questa sua nuova tendenza anche in un’attività assai felice di novelliere dedicata a ritrarre aspetti e figure della sua regione, fra un certo gusto idillico e nostalgico di rievocazione del passato e di descrizione dell’ambiente naturale e paesaggistico e una piú acuta attenzione alla realtà del mondo povero e semplice dei montanari piemontesi: Novelle e paesi valdostani, del 1886, Gente e cose della montagna, del 1896.

Da questa adesione al verismo il Giacosa ricavò la spinta ad un’arte teatrale piú sobria e convincente che trovò la sua realizzazione piú coerente nell’importante dramma Tristi amori (1890), storia di un adulterio (uno dei temi dominanti nel teatro verista e naturalista) in cui soprattutto conta il tono compatto di grigiore e di sobria tristezza che l’autore sa ricavare dalla sua rappresentazione realistica di un ambiente borghese e provinciale, meschino e chiuso.

Ma in un ulteriore svolgimento della sua arte teatrale il Giacosa – che intanto era venuto accogliendo gli stimoli potenti del nuovo teatro del grande drammaturgo norvegese Ibsen e aveva cercato, con velleità sproporzionata alle sue possibilità, di riviverne la grande lezione di dramma di idee e di problemi morali in drammi come I diritti dell’anima – raggiunse ancora un risultato notevolissimo nel dramma Come le foglie (1900) che, nella rappresentazione dello sfacelo di una famiglia dell’alta borghesia contemporanea, portava una piú complessa ricchezza di sfumature psicologiche e una sensibilità acuta e delicata di singolare novità.

Piú saldamente stretto alla poetica di tipo veristico, da lui sviluppata con una piú spregiudicata e ferma analisi psicologica e ambientale, è infine il milanese Marco Praga (1862-1929), che nei suoi numerosi drammi, e soprattutto in La moglie ideale e in La porta chiusa, rappresentò il mondo borghese del suo tempo mettendone a nudo, con tagliente ironia, le contraddizioni, le convenzioni, la profonda corruzione e miseria morale.

Se in Praga continua e si conclude la piú tipica prospettiva del teatro verista, fra ultimo Ottocento e primo Novecento, le istanze veristiche si complicano e a volte si disgregano sotto la forte influenza dell’ibsenismo (già notata nel caso di Giacosa) e di varie tendenze spiritualistiche, intimistiche, simboliche, maturate nel crescente nuovo clima del decadentismo, in cui campeggerà con tutta una problematica nuova e originalissima la grande opera tragica di Pirandello.

A volte si tratta di un deciso rifiuto del verismo e del realismo a favore di uno spiritualismo vago e velleitario (il caso dei drammi del milanese Enrico Annibale Butti, che pur riuscí ad ottenere un esito piú convincente e umano nel dramma Fiamme nell’ombra), a volte invece si tratta della genuina maturazione di nuove esigenze e possibilità dall’interno stesso di una rappresentazione realistica, come avviene nel caso notevole del napoletano Roberto Bracco (1862-1943), nelle cui numerose commedie di ambiente napoletano il gusto autentico e umano della realtà si vena e si arricchisce progressivamente di una ricerca psicologica piú intima fino a toccare le radici dei sentimenti nel misterioso mondo del subconscio.

Come già si è accennato (cfr. pag. 286) parlando della cultura che fa da fondamento allo stesso verismo, un cenno va fatto infine alla critica e in genere agli studi letterari di questo periodo, che vide il fiorire di quell’atteggiamento che viene individuato col nome di «scuola storica». Fra i maggiori studiosi di questo indirizzo si possono ricordare, prima di tutti, Pasquale Villari, che in un saggio apparso nel 1866 sul «Politecnico», La filosofia e il metodo storico, cercava una definizione teoretica del «metodo» che poi applicava nell’opera Niccolò Machiavelli e i suoi tempi (1877-1878), metodo fondato su una precisa ricostruzione storica e cronachistica fatta sui documenti; quindi Domenico Comparetti (1835-1927) per il suo Virgilio nel Medio Evo (1872), modello di questo tipo di ricerca storica nella sua positività e nei suoi difetti (quello principalmente di credere nell’esistenza di una tradizione popolare separata da quella dotta); Alessandro D’Ancona (1835-1914) per le Origini del teatro italiano (1877); Pio Rajna (1847-1930) specie per Le fonti dell’«Orlando furioso» (1876); Girolamo Vitelli (1849-1935), grande filologo classico; Graziadio Isaia Ascoli (1829-1907), che fece le sue prove nel campo della linguistica e della dialettologia; Francesco Torraca, Francesco D’Ovidio e infine Ernesto Giacomo Parodi (1862-1923), filologo e critico che l’esperienza del metodo storico volse verso approdi piú moderni non insensibili alla nuova cultura idealistica.